I Fondamentalisti dell'urbanistica hanno decretato la morte della città

Ricordate “l’invasione degli ultra corpi”, quando il protagonista, alla fine del film, si aggirava in una città nella quale la sua presunta normalità si confrontava con la totale diversità degli alieni che vivevano nel corpo degli umani? Ebbene, a Napoli molti giovani architetti si aggirano in una città dove nessuno si accorge del suicidio culturale ed architettonico che gli “alieni” ci hanno imposto.
nessuno, dal più semplice cittadino al più attento degli intellettuali si è indignato per quanto previsto dalla Variante al Piano Regolatore Generale del Comune di Napoli: nessuno degli edifici costruiti sul territorio cittadino prima del 1943 può essere demolito e ricostruito. È concesso mantenere, risanare, restaurare, conservare l’esistente ma sempre, anche per il più insignificante dei palazzi, deve conservarsi l’aspetto e la forma originari. Non è mai possibile sostituire un edificio vecchio, anche se figlio della peggiore speculazione edilizia di qualche decennio fa, con una buona architettura contemporanea.
i nostri governanti ed i loro inquisitori hanno quindi deciso che non deve restare traccia della nostra epoca. Tutto deve essere congelato e conservato uguale a se stesso senza consentire quella stratificazione, quella sovrapposizione di segni e di architetture che hanno reso straordinarie le città italiane.
Tutti sanno che l’impianto stradale del centro storico napoletano è quello dei cardini e dei decumani romani, che la Chiesa di San Paolo Maggiore fu edificata sulle rovine di una chiesa del IX secolo in luogo del tempio dei Dioscuri del Foro Romano, riutilizzando alcune colonne dello stesso. Così come, ad esempio, lungo via San Biagio dei librai il rinascimentale Palazzo Marigliano (1513) si confronta con la Chiesa si S. Maria del Divino Amore edificata nel 1709. pochi passi separano duecento anni di storia che nessun editto o “variante” ha impedito di mettere a confronto. La città ha imparato a raccontarci la sua storia, ci mostra le sue ferite, sempre attenta a ricordarci che è un organismo vivente e che la sua stessa esistenza è affidata alla modificazione.

L’urbanista dei nostri giorni ha inventato però la paralisi. Ha progettato ed organizzato la lenta agonia della nostra città, da novello fondamentalista ha pianificato il lento prosciugarsi della linfa vitale della città, della sua cultura, condannando Napoli ed i napoletani ad n lento processo di amnesia collettiva.

Se, per ipotesi, si immagina che un dittatore possa aver scritto un editto del genere anche solo trecento anni fa, ci troveremo adesso a vivere in una città simile in tutte le sue parti al set di un film storico: Vanvitelli non avrebbe realizzato Palazzo D’Angri, Ferdinando Fuga gli edifici su via Medina, non ci sarebbero la Galleria Umberto I, il San Carlo in queste forme, non avremmo avuto il corso Vittorio Emanuele e Via Santa Teresa degli Scalzi e, con tutti i limiti del progetto, il Risanamento non avrebbe modificato la zona del porto consentendoci di vivere ancora l’emozione del colera che proliferava in quei vicoli maleodoranti.

Per questo è nostro dovere insorgere, ribellarci, il nostro tempo ha il diritto-dovere di lasciare un segno nel più profondo dei tessuti della città, il nostro non può essere il tempo dell’assenza perché non c’è mai stata un’epoca senza segni, senza architetture. Un esempio per tutti è quello di un edificio che si trova nella parte nord dei Quartieri Spagnoli lungo via Francesco Girardi che, sul punto di crollare, è stato malamente puntellato. Questo palazzo di scarse o nulle qualità architettoniche, probabilmente edificato o ristrutturato nella seconda metà dell’Ottocento e che, che per un cedimento delle fondazioni ha subito dei gravi danni strutturali, non potrà mai essere abbattuto  e ricostruito. Questa insignificante architettura è condannata a sopravvivere a se stessa. In ogni caso ed a qualunque costo, non può essere sostituita da un’architettura contemporanea, dovrà essere consolidata, mantenuta su in qualche modo per rappresentare l’impossibilità della nostra epoca, della nostra città, a costruire un semplice palazzo moderno in un tessuto urbano preesistente. Ma quanti sono gli edifici dei Quartieri Spagnoli, del Centro Antico che sono nelle stesse condizioni? Oltretutto gli urbanisti del fondamentalismo non hanno pensato che i costi annuali di manutenzione di un edificio aumentano con la vita dello stesso(o ci hanno pensato e anche questo fa parte del progetto di annientamento) per cui condannando tutta la città alla non sostituzione di alcuna parte di essa, la condannano ad un sempre più alto costo di manutenzione che, inevitabilmente, conduce ad una prospettiva di manutenzione assistita (dallo Stato, in quanto i singoli non avranno più la convenienza economica a vivere la città) o di morte. Meraviglia anche il silenzio delle associazioni, delle istituzioni che negli anni hanno fatto della difesa della città e del territorio il loro principale obiettivo. Distratti e concentrati su eventi mediatici come l’abbattimento del Fuenti, non spendono un parola per questa deliberata eutanasia della cultura architettonica contemporanea.
si legge nella nota introduttiva alla Variante che “le proposte per il centro storico sono state discusse con i proff. Giancarlo Alisio, Gaetana Cantone, Cesare De Seta e Benedetto Gravagnuolo” nonché elaborate d’intesa con la Soprintendenza per i beni architettonici ed ambientali. Di cosa hanno discusso? A qualcuno è venuto in mente che un progetto di questo tipo condanna, di fatto, la città ad una lenta agonia? O si è preferita la cultura dell’omologazione, dell’accettazione pedissequa del principio che meno si progetta, meno si sbaglia?

Napoli è la città degli opposti, vetrina prediletta di tutti i Pulcinella possibili, incapaci di programmare, progettare un qualsiasi sviluppo. Si passa quindi, per chi ne ha memoria, dal Regno del Possibile ai Parchi Tecnologici da cinque milioni di etri cubi di edificazione, all’urbanistica del fondamentalismo dove tutto è vietato, senza pensare allo sviluppo di una città normale nella quale la programmazione urbanistica si concerta con la società civile, dove le amministrazioni progettano con coraggio e ponderazione, dove la pratica del concorso di architettura non è una chimera ma prassi quotidiana.


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