Pratica come conquista
Chi comincia la professione e non è dipendente di un grande studio si trova a operare quasi sempre nell’ambito degli interni: ristruttura l’appartamento del parente, il negozietto dell’amico…. È questa un’ottima palestra che ha messo alcuni di noi di fronte al fatto che quel poco o molto che ha imparato all’università non serve affatto alla pratica dell’architettura. Ci si accorge di non sapere nulla, o quasi, di impianti di riscaldamento, di non conoscere la differenza fra un deviatore e un interruttore, cominciando così a balbettare risposte inconcludenti quando il mastro di turno ci chiede “architetto, il pavimento la posiamo a colla o a sabbione?”
Allora si ricomincia daccapo, ogni giornata in cantiere diventa una lezione sul campo dove il capo-cantiere, quando è bravo, ti trasmette un po’ del suo sapere: da lui si può apprendere, senza rinunciare completamente al controllo del lavoro, mentre al cliente non si deve far comprendere che ne sappiamo quanto lui in merito alla direzione dei lavori.
Veniamo ora alla questione degli artigiani. In generale, nei nostri territori, si trovano delle ottime professionalità che sono quasi sempre disponibili a condividere le loro competenze. Spesso, però, si riscontrano due tipi di “difetti” (purtroppo non si è in grado di comprenderlo all’inizio della professione): il primo è la presunzione che li porta ritenere che quanto conoscono sia il massimo dello scibile in materia. Non sono quindi disposti ad accettare nessuna novità che l’evoluzione della tecnologia propone. Rimangono tenacemente legati alle tradizioni proponendo sempre lo stesso modello realizzativi (e c’è da tener presente che le loro tradizioni sono quelle del cemento armato e del movimento moderno, ovvero delle tradizioni recenti fondate quasi sempre sul principio della transitorietà e della caducità).
Il secondo difetto è l’indisponibilità a inserire nel proprio lavoro artigianale un’attività affine. L’esempio classico è il falegname che rifiuta di utilizzare i tranciati di nuova generazione o che non vuole realizzare inserti in rame o in ottone, così come quei fabbri che non vogliono lavorare l’acciaio inox o i metalli non ferrosi. C’è da dire purtroppo che i migliori artigiani, privi dei difetti di cui sopra, spesso sono migrati al nord: resta al giovane professionista l’onere di ricercare il giusto maestro con il quale dialogare e crescere. Chi si trova all’inizio della professione deve quindi confrontarsi con queste problematiche, cercando di comprendere se quello che si è disegnato è realizzabile e a che costi.
Veniamo poi a una seconda questione. All’università quasi tutti abbiamo progettato un centro polifunzionale, un quartiere, una città, fermandoci, in termini di dettagli, quasi sempre alla scala dimensionale 1:50, e di fronte alla necessità di disegnare una semplice porta, necessariamente 1:5, molti sono disorientati, non sanno proprio da dove cominciare. Qui gli artigiani non sono d’aiuto perché non abituati al disegno, preferendo lo schizzo, che lascia loro la libertà d’interpretare la volontà del progettista. I giovani progettisti più attenti si organizzano, chiedono suggerimenti ai colleghi più anziani (posto che questi abbiano elaborato una cultura del disegno di dettaglio), armati di metro studiano ciò che li circonda, cercano su internet, così da produrre, se pure a fatica, quei grafici che sono garanzia della qualità dell’architettura proposta. Per alcuni progettisti però vale la scelta della rinuncia al disegno, al controllo del dettaglio; preferiscono usare il matitone in cantiere, lasciando nelle mani degli artigiani la qualità della propria architettura.
Quando si è maturata una certa esperienza ci si rende conto che gli anni passati a far pratica di interni sono stati fondamentali, che hanno formato il nostro lessico architettonico. Se non si è rinunciato al disegno di dettaglio quale strumento di controllo della propria architettura, si è maturato quel bagaglio di informazioni che ci consente di produrre architettura di qualità. Ci si rende conto così che le grandi architetture sono costruite anche attraverso il dettaglio. Dettaglio che costituisce il fonema, la sillaba del discorso complessivo dell’architettura che si sta realizzando.
Nella cultura anglosassone questo principio è assolutamente chiaro, tanto è vero che già dal primo anno della facoltà di architettura, alla fine del corso, si organizzano campus nei quali gli studenti realizzano una abitazione verificando nella pratica quanto studiato durante i corsi.
Le nostre facoltà sono invece per lo più strutturate su altri ordinamenti e sono poche quei docenti che possiedono la cultura del dettaglio e la “pratica del fare” che dovrebbero costituire la base di qualunque architettura.
Non ci resta quindi, una volta completati gli studi, che ricominciare daccapo affidano alla pratica degli interni la costruzione del lessico della nostra architettura.