Sull'impossibilità di fare architettura a Napoli
A Napoli, in quello che viene definito con un po’ di superficialità, il più grande centro storico del mondo, la sostituzione edilizia, ovvero la demolizione e ricostruzione di un edificio, autorizzata tra l’altro solo per edifici costruiti dopo il 1943, è possibile soltanto se si riproducono le forme e gli stilemi della classicità. E’ quindi praticabile soltanto la logica del “dov’era – com’era” impedendo nei fatti la costruzione di un’architettura figlia del tempo che la commissiona. Questa condizione è indotta dal rigido sistema normativo ma è condivisa dalla maggioranza dei cittadini che, esclusi per decenni dal pur esiguo dibattito culturale sull’immagine della città, preferiscono la copia degli edifici del passato all’architettura contemporanea. Nel resto dell’Europa, come in molte parti d’Italia, i cittadini non vivono questa condizione di decadenza della cultura architettonica. Le collettività riescono quasi sempre a realizzare e a condividere sia le grandi opere di architettura che un’edilizia diffusa, nelle quali qualità architettonica e linguaggio contemporaneo convivono felicemente. La deriva passatista è comunque in agguato, l’interessante articolo di Paolo Valentino sul Corriere della Sera del 11 gennaio scorso rileva che anche nella Berlino della ricostruzione un gruppo di imprenditori vuole sostituire “palazzo Honecker”, l’edificio costruito nel centro della città negli anni settanta quale emblema del passato regime Ddr, con un manufatto con la facciata identica a castello ottocentesco che palazzo Honecker sostituiva. La cosa ha sollevato un vespaio di polemiche e i Berlinesi sono coinvolti nel dibattito.
Nella città partenopea invece l’Amministrazione Comunale ha rilasciato un permesso di costruzione (ex concessione edilizia) per la ricostruzione di un edificio del quartiere Vomero crollato nel dopoguerra, del quale resta in piedi soltanto un lato del muro perimetrale alto non più di due metri. Il documento amministrativo impone che il nuovo edificio riprenda il disegno delle piante e delle facciate del palazzo crollato rifacendosi a vecchie foto d’archivio, prescrive al contempo che siano rispettate le vecchie altezze così come le tecniche costruttive al tempo adoperate (murature in elevato in tufo e solai in legno). Della cosa ha scritto con precisione Antonio Guizzi che ha sottolineato l’incongruenza tecnica ed amministrativa della concessione comunale. L’episodio, per essere compreso, va collegato al trend passatista in atto che vede quali esempi emblematici la realizzazione in stile delle stazioni della funicolare di piazza Amedeo e l’ipotesi, prodotta dell’attuale gestione dell’Ente Mostra d’Oltremare, di ricostruire com’erano e dov’erano cinque padiglioni del ventennio demoliti dopo la guerra. Le stazioni della funicolare erano edifici in stile liberty (quindi contemporanei per l’epoca di costruzione) demoliti negli anni settanta e sostituiti da manufatti in cemento e ferro progettati da un docente della Facoltà di Architettura di Napoli. A seguito di un contenzioso giudiziario durato decenni si è addivenuti alla necessità di sostituire gli edifici degli anni settanta con nuovi manufatti che un altro docente universitario ha progettato riprendendo il disegno delle prime stazioni liberty. Così le stazioni inaugurate nel ventunesimo secolo hanno facciate ed impianto distributivo che raccontano di una cultura architettonica del secolo scorso ma realizzate utilizzando materiali e soluzioni tecnologiche dei nostri giorni (non si comprende perché non si sia perseguita sino in fondo la filosofia della citazione riproponendo ad esempio gli antichi pavimenti, le carrozze in ferro e legno, sino all’abbigliamento del personale in stile). La sindaca della città, durante l’inaugurazione, ha espresso pubblicamente il gradimento per la soluzione realizzata affermando che quanto costruito restituisce alla città un manufatto che si era perso. In generale tutta l’opinione pubblica ha gradito l’esito formale e culturale dell’operazione.
Anche per l’annuncio a mezzo stampa dell’intenzione di ricostruire com’erano e dov’erano i cinque padiglioni della Mostra d’Oltremare non c’è stata alcuna reazione negativa, anzi l’opinione pubblica e i cosiddetti intellettuali hanno dimostrato con il silenzio e con un generale mormorio di consenso che queste operazioni vengono condivise dalla cittadinanza.
E’ necessaria a questo punto una profonda riflessione culturale: i pochi esempi di architetture realizzate a Napoli, le scelte di sviluppo e di recupero dell’architettura moderna e gli strumenti urbanistici vigenti vietano, di fatto, la possibilità di realizzare architetture contemporanee e le stesse, se pure praticabili, non sarebbero gradite alla collettività. L’arte contemporanea sarebbe invece la nuova passione dei napoletani che hanno meritato ben due musei dedicati alla stessa. E’ una crisi della qualità e del linguaggio architettonico contemporaneo o è la collettività partenopea che non riconoscendosi negli edifici costruiti con un lessico dei nostri giorni, si rifugia negli stilemi del passato? C’è da sottolineare che questo è un problema diffuso a macchia di leopardo in Italia e che a Napoli trova particolare vigore. In tutta Europa l’architettura contemporanea è diffusa e gradita dalla collettività. Anche nei centri storici delle capitali Europee gli interventi di architettura moderna sono possibili e spesso divengono il motore del recupero degli stessi. Allora perché solo in Italia ed in particolare a Napoli l’architettura contemporanea spaventa?
I motivi sono diversi ed in questa sede è possibile elencarne solo alcuni rimandando ad uno sviluppo successivo la trattazione degli stessi. In primo luogo c’è da ricordare che in Italia ed in particolare a Napoli la ricostruzione post bellica è coincisa la speculazione edilizia più violenta (per tutti “Mani sulla città” di Rosi). Tale modus ha diffuso la convinzione che l’architettura contemporanea equivale alla speculazione edilizia. In secondo luogo le poche architetture post belliche di qualità erano diluite in un mare di edilizia speculativa che ne offuscavano le valenze positive. Inoltre le stesse erano figlie di una cultura architettonica, quasi tutta di matrice Corbusiana, che negava di fatto una continuità formale e funzionale con lo sterminato patrimonio della classicità presente sul nostro territorio. Il terzo aspetto è legato alla contingenza che la forte politicizzazione delle facoltà di architettura ha impedito che, all’interno delle stesse, si sviluppasse un dibattito maturo e proficuo sulla qualità dell’architettura. I docenti, forti del doppio imprimatur politico e accademico, hanno di fatto egemonizzato il mercato delle commesse per gli edifici significativi delle città e spesso le architetture costruite erano più opere concettuali (di cattiva qualità architettonica e edilizia) che edifici capaci di esprimere continuità con lo straordinario passato nel quale si inserivano, senza tra l’altro riuscire a divenire espressione della collettività che li commissionava. Come ultima circostanza (ma certamente potrebbero essere definite altre casistiche) esiste la particolare propensione, tutta italiana, di fare della propria passione politica una professione. Sono nati così i professionisti dell’antimafia (di Sciasciana memoria) come i professionisti dell’ambientalismo. Signori che hanno fatto della legittima pratica di tutela del territorio la loro professione (e spesso il loro sostentamento economico). Bravissimi a definire speculazioni tutte le operazioni di modifica dell’ambiente, incapaci di elaborare qualsiasi giudizio sulla qualità dell’architettura proposta, vivono nella convinzione che la paralisi e la riproposizione pedissequa del passato sono le panacee di tutti i mali del costruire.
Per questi e probabilmente anche per altri motivi l’Italia, da culla della civiltà e dell’architettura, ha rinunciato ad accogliere sul suo territorio architetture contemporanee, condannando i nostri anni all’oblio, alla rinuncia, alla pratica del falso storico. Napoli, città che ha sempre collezionato primati, spesso negativi, ha in questo senso inaugurato la stagione dei falsi storici, stagione che in Italia non è ancora diffusissima (il caso del restauro stilistico della Fenice di Venezia ha giustamente causato scalpore) ma soprattutto si è dotata, per prima, di una legislazione urbanistica che fa di un trend reazionario e passatista un principio normativo.
La cittadinanza e i presunti intellettuali che dovrebbero rappresentarla, non a torto considerati in passato plebe da nutrire con farina e forca, annuiscono sornioni, pronti a gridare allo scandalo quando l’Amministrazione recinta la Villa Comunale con una cancellata (forse criticabile ma certo non la cosa peggiore vista in città) mentre tacciono complici quando si fa del falso storico il principio ordinatore dello sviluppo urbano della città del futuro. Ma Napoli è anche la città dei grandi recuperi, capace di sognare e realizzare la rivoluzione illuminista prima dei francesi o di cacciare senza l’aiuto di nessuno le forze di occupazione naziste, allergica a tutti i totalitarismi ha sempre fatto della satira, dello sfottò, lo strumento di derisione del potere.
Non resta che sperare che proprio il popolo, ancor prima degli intellettuali stanchi ed asserviti al potere, realizzi (magari abusivamente) quell’architettura contemporanea che tanto spaventa il potere costituito.