Sull'incontro con Oscar Niemeyer
Lo scorso ottobre sono stato in Brasile per incontrare Oscar Niemeyer. Il viaggio si era reso necessario per cercare di interpretare le volontà del maestro in merito allo straordinario progetto dell’Auditorium di Ravello da rendere esecutivo in sessanta giorni, con un team di oltre cinquanta professionisti. Una follia tutta italiana quella di rendere possibile la frammentazione di un progetto realizzando fasi distinte affidate, tutte, a professionisti differenti, ma, almeno in questa occasione, grazie anche alle sollecitazioni e all’interessamento del professor Domenico De Masi (uno dei principali artefici di questa iniziativa), si è cercato di rispettare il progetto originario incontrando personalmente l’Autore per sottoporgli il progetto esecutivo.
Mi sono così trovato, assieme a Giampiero Martuscelli, progettista strutturale, e ad un responsabile dell’impresa appaltatrice, al cospetto di questo piccolo signore che dopo due mesi avrebbe compiuto un secolo di vita.
Diversi anni fa avevo avuto un’esperienza simile incontrando un quasi centenario, Giovanni Michelucci. Quando ho incrociato lo sguardo di Niemeyer per la prima volta i suoi occhi umidi e profondi mi hanno ricordato quelli di Michelucci e, con il passare dei minuti, il parallelo si è fatto più certo. Ero affascinato dalla capacità che sembrano possedere alcuni eletti, quali Niemeyer e Michelucci, di sintetizzare in un segno, in poche parole, concetti complessi. Come se le esperienze, la vita vissuta, gli avessero consentito di distillare saggezza epurando il loro agire, il loro narrare, da tutto il superfluo.
Durante il primo incontro, Niemeyer ci ha raccontato del progetto a cui stava lavorando in quel momento – la copertura di un grande spazio destinato ad eventi pubblici – usando parole semplici, sottolineando che le scelte formali e strutturali erano ispirate alle forme della natura e, spesso, delle donne. Ci ha mostrato che basta guardarsi attorno per trovare tutti i riferimenti necessari. Di fronte al suo piccolo tavolo da disegno era affissa una grande foto in bianco e nero nella quale si incrociavo le curve di due corpi femminili: le linee delle cosce, dei due ventri, disegnavano un paesaggio che costituiva per il maestro il riferimento primo della sua architettura.
Gli occhi umidi si sono illuminati e sono diventati ancora più densi quando ci ha mostrato il progetto con i suoi riferimenti: parole semplici e centellinate ci hanno fatto comprendere che spesso il nostro agire è inquinato da elementi superflui. Tutte le sovrastrutture, i ragionamenti con i quali tentiamo di giustificare le nostre architetture diventano superflui se si ha l’umiltà di guardarsi attorno e di sognare.
Niemeyer, nella sua lingua musicale, ci ha (di)mostrato che è sufficiente esercitare la sensibilità, facendo sì che sia quest’ultima a guidare la penna. Le sue mani disegnavano nell’aria figure morbide che coniugavano funzione e forma. Il suo affabulare musicale accompagnava il gesto rendendo tutto chiaro e essenziale. Analogamente, anni prima, Michelucci mi aveva parlato della necessità di guardar ai rami contorti di un ulivo centenario, che probabilmente era lo stesso di un quadro di Giotto, per cercare i precedenti remoti di un’architettura riuscita. Niemeyer invece raccontava della straordinaria bellezza delle forme delle donne a cui ispirarsi per disegnare ardite strutture.
Nei cerulei occhi di entrambi ho visto una passione ancora viva e la serenità di chi ha il piacere di narrare.
Dopo questo primo, breve incontro, ho sentito la necessità di vedere, di vivere le architetture di Niemeyer. Sono stato quindi a Nitteroy dove il maestro ha da poco tempo completato un auditorium di dimensioni analoghe a quelle di Ravello. La visita di questa architettura è stata un’esperienza straordinaria. Forme semplici e armoniose accolgono il visitatore. Come una donna adagiata su di una spiaggia brasiliana, il manufatto si offre al pubblico come poggiato su di un fianco, mostrando e al contempo nascondendo le sue curve. Non vi è una linea, un segno fuori posto. Per la prima volta, memore dell’incontro con il maestro, ho vissuto un’architettura come uomo e non come architetto. Ciò ha epurato la mia mente dalle tante sovrastrutture che il nostro mestiere e l’essere figli del ricco Occidente, sedimenta nelle nostre coscienze. L’opera di Niemeyer era, nella sua semplicità, perfettamente realizzata, non vi era un segno gratuito, un tratto fuori posto. Non vi erano manierismi tecnologici a inquinare la bellezza delle forme. Sono quindi volato a Brasilia dove, accanto alle straordinarie opere progettate dal maestro per la fondazione della capitale, negli ultimi anni è stato appena completato un grande spazio espositivo. Brasilia è una città democratica dove i manufatti che rappresentano lo Stato, nella sua massima espressione, sono “aperti” alla gente, non esiste una vera barriera fra il dentro e il fuori degli edifici. Nonostante le ovvie necessità di controllo non si ha mai la sensazione di essere spettatore. Tutti vivono i palazzi, i giardini, le chiese come propri e in questo senso l’architettura di Niemeyer ha vinto la sua più grande battaglia perché è riuscita a coniugare la necessità di “rappresentare” con la volontà di integrare.
Brasilia è la capitale di uno Stato federale e come tale i suoi edifici pubblici divengono espressione della collegialità che li ha commissionati. Nelle architetture di oltre quarant’anni fa di Niemeyer si percepiva una tensione sulla ricerca della forma che, nel suo disegno intimo, risolvesse il progetto. L’ultima opera, nella sua essenzialità, rappresenta la sintesi di questa tensione. Una grande cupola, un pantheon bianco dalle geometrie elementari è attraversato da una rampa metafisica che organizza gli ambienti. Si tratta di uno spazio espositivo a cui si accede al primo livello direttamente dall’esterno, mentre il secondo piano è raggiungibile da una grande rampa spiroidale adiacente alla fabbrica. La stessa rampa, attraversata la cupola, raggiunge nuovamente il primo livello. Tutta l’illuminazione è affidata ad una grande lampada sospesa, una cupola rovesciata, che proietta la luce verso il soffitto. Anche in questo caso si ha la sensazione di un’opera che, nella sua semplicità, risolve in se stessa il tema iniziale senza che alcun ornamento o soluzione tecnologica appesantisca il segno architettonico.
Dopo qualche giorno siamo tornati da Niemeyer per entrare nel merito del progetto di Ravello. La discussione con il maestro è stata illuminante. Abbiamo compreso, anche alla luce delle architetture visionate, la straordinarietà del progetto dell’auditorium, il modo eccezionale in cui il progetto era in grado di integrarsi con il territorio e, al contempo, rispondere alle esigenze funzionali proposte.
Sono state operate per questo delle semplificazioni nell’esecutivo per adeguarlo al principio di essenzialità e chiarezza.
Alla fine il maestro ci ha invitato a pranzare con lui, ed anche questo piccolo rito è divenuto un’esperienza bellissima: con una lentezza del dire, che non gli viene dall’età ma dalla mancanza assoluta di fretta, ci ha nuovamente spiegato che le forme a cui ispirarsi sono già presenti in natura. Basta avere la pazienza di farle fluire nella mano che traccia il disegno.
Il resto è superflua sovrastruttura.
L’Università di Napoli “Federico II”, dipartimento di Diritto dell’Economia, con la Mostra d’Olremare, inaugura il 5 Dicembre una mostra fotografica sull’opera di Oscar Niemeyer. La mostra si terrà presso il padiglione dell’America Latina nella mostra d’Olremare. L’iniziativa è promossa dal Prof. Francesco Lucarelli.